28 Dic Gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate verso le banche
Nel corso degli ultimi anni, l’Agenzia delle Entrate ha condotto una serie di verifiche fiscali nei confronti di diversi Istituti di credito italiani.
Nel mirino dei funzionari dell’Agenzia vi sarebbero quelle operazioni finanziarie che le banche normalmente intraprendono sui mercati internazionali e che generano crediti per imposte estere e dividendi di fonte estera.
A seguito di tali verifiche, l’Amministrazione finanziaria ha emesso i primi avvisi di accertamento ed ha contestato, all’insieme delle banche destinatarie degli stessi avvisi, imposte non versate per diverse centinaia di milioni di euro.
Alcuni Istituti bancari hanno scelto la strada della definizione extra-giudiziale delle vertenze, invocando un “accordo” con l’Amministrazione in relazione all’ammontare delle somme da versare immediatamente.
Altri Istituti, invece, hanno imboccato la via del contenzioso presentando ricorso presso le Commissioni Tributarie di competenza.
Uno di questi ricorsi, in particolare, è giunto a discussione ed il 29 novembre scorso la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia ha depositato la relativa sentenza.
La notizia è che la stessa Commissione Tributaria ha respinto il ricorso presentato dall’Istituto di credito in questione dando di fatto pienamente ragione all’operato dell’Agenzia delle Entrate.
Ma quali sono state le operazioni oggetto delle verifiche fiscali? E che cosa viene contestato dall’Agenzia delle Entrate?
Nelle pagine che seguono cercheremo dare una risposta a queste domande.
Lo faremo attraverso l’analisi della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, cercando di illustrare, inoltre, sia le motivazioni addotte dalla difesa della banca, sia la decisione finale assunta dai Giudici.
Sebbene i temi trattati abbiano un carattere piuttosto tecnico, cercheremo di descriverli attraverso un linguaggio per quanto possibile chiaro e semplice, dando ampio spazio alla spiegazione di quelle nozioni che nel linguaggio tecnico si assumono come acquisite.
Non siamo interessati ai nomi dei “protagonisti” o alle cifre in gioco.
Siamo invece interessati a descrivere i fatti e a cogliere il quadro generale che si può trarre dalla vicenda in questione.
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Come detto, in data 29 novembre 2010, la prima sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia ha depositato la sentenza attraverso la quale rigettava il ricorso presentato da una banca (che chiameremo “banca italiana”) contro un accertamento dell’Agenzia delle Entrate.
Nelle motivazioni della sentenza, i Giudici ripercorrono quali sono state le operazioni che l’Agenzia delle Entrate ha contestato alla “banca italiana”, quali i motivi di tali contestazioni, e quali le motivazioni che ha opposto la difesa.
Infine, la Commissione illustra le proprie osservazioni.
Operazioni contestate da parte dell’Agenzia delle Entrate
Nel seguito esamineremo una delle operazioni contestate dall’Agenzia delle Entrate.
Si tratta di operazioni finanziarie su titoli di Stato del Brasile.
In pratica, la “banca italiana” acquista titoli di Stato brasiliani che maturano una cedola periodica.
Assumiamo che l’importo pagato dalla “banca italiana” per l’acquisto dei titoli brasiliani sia pari a 1000.
Allo stesso tempo, sempre la “banca italiana”, stipula un contratto derivato con un Istituto di credito elvetico, che nel seguito chiameremo “banca svizzera”.
Il contratto stipulato tra la “banca italiana” e la “banca svizzera” è legato all’andamento della prima operazione, cioè all’acquisto da parte della “banca italiana” dei titoli di Stato del Brasile, e per questo è chiamato contratto “derivato”.
Il contratto derivato tra la “banca italiana” e la “banca svizzera” è piuttosto complesso, ma potrebbe essere riassunto in questo modo: la “banca svizzera” versa alla “banca italiana” l’importo che la “banca italiana” ha speso per l’acquisto dei titoli di Stato brasiliani (cioè 1000).
La “banca italiana” versa a sua volta alla “banca svizzera” un altro importo di poco inferiore al precedente, cioè 980.
Il risultato di questa prima parte dell’operazione è abbastanza intuitivo: la “banca italiana” è proprietaria dei titoli di Stato brasiliani, ma non deve “sopportare” il rischio di una eventuale mancata restituzione dei soldi che ha versato al Brasile.
Infatti, tale somma, pari a 1000, le è stata “rimborsata” dalla “banca svizzera”.
Così, la “banca italiana” non è più esposta verso il Brasile, ma verso la “banca svizzera” a cui ha versato l’importo di 980.
A fronte di questo primo scambio di denaro tra la “banca italiana” e la “banca svizzera”, si innesta la seconda parte del contratto derivato: la “banca italiana” versa alla “banca svizzera” le cedole periodicamente incassate dai titoli di Stato brasiliani, più un certo tasso di interesse.
A sua volta, la “banca svizzera” versa alla “banca italiana” un importo periodico pari ad un altro tasso di interesse.
Il rendimento del contratto derivato stipulato con la “banca svizzera” è per la “banca italiana” piuttosto basso.
Invece, il primo contratto, cioè l’acquisto dei titoli di Stato brasiliani è, sempre per la “banca italiana”, molto vantaggioso dal punto di vista fiscale.
Infatti, la “banca italiana” può godere del così detto credito d’imposta figurativo pari al 25% degli interessi che percepisce sugli stessi titoli di Stato brasiliani che ha acquistato.
Ma che cos’è il credito d’imposta figurativo?
Nel seguito risponderemo a questa domanda.
Il credito di imposta figurativo
Il credito d’imposta figurativo è un meccanismo fiscale adottato nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
Le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sono accordi bilaterali sottoscritti tra due Stati.
Attraverso tali accordi, si vuole evitare che i redditi maturati nello Stato A, ma percepiti da un soggetto residente nello Stato B, siano assoggettati a una doppia imposizione fiscale: sia nello Stato A e sia nello Stato B.
Il credito d’imposta è un meccanismo utilizzato per evitare questa doppia imposizione.
In pratica, il soggetto residente nello Stato B, che percepisce un reddito dallo Stato A, deve tassare tale reddito prima nello Stato A e poi nello Stato B, ma può considerare le imposte pagate nello Stato A come un credito di imposta (quindi come imposte già pagate) da vantare nello Stato B.
Dunque, in questo caso, il credito di imposta rappresenta un’imposta già pagata nello Stato A che diventa un credito nello Stato B.
Alcune convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni prevedono, accanto all’utilizzo del credito d’imposta normale, anche il così detto credito d’imposta figurativo.
In questo caso, lo Stato B riconosce un credito d’imposta fittizio (figurativo, appunto) su di un reddito maturato nello Stato A, ma sul quale lo Stato A non ha riscosso alcuna imposta.
Proviamo a fare un esempio.
La società Alfa ha maturato un reddito nello Stato A pari a 100.
La società Alfa risiede nello Stato B.
Tra lo Stato A e lo Stato B è in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni che prevede l’utilizzo del meccanismo del credito d’imposta.
Prima ipotesi: tra i due Stati è previsto l’utilizzo del credito d’imposta normale.
In questo caso, lo Stato A trattiene a titolo d’imposta un importo pari a 20 e la società Alfa incassa 80.
Nel momento in cui Alfa dichiara i propri redditi nello Stato B è tenuta ad indicare 100.
Sul valore di 100, le imposte nello Stato B sono pari a 25, ma Alfa può vantare un credito di imposta pari a 20.
Quindi, le effettive imposte che Alfa deve versare allo Stato B sono pari solo a 5 (cioè: 25-20).
Seconda ipotesi: tra i due Stati è previsto l’utilizzo del credito d’imposta figurativo.
In questo caso, lo Stato A non trattiene nulla e Alfa incassa 100.
Nel momento in cui Alfa dichiara i propri redditi nello Stato B, è tenuta ad indicare 100.
Sul valore di 100, le imposte nello Stato B sono pari a 25, ma Alfa può lo stesso vantare un credito di imposta figurativo (cioè fittizio, su imposte che non gli sono state realmente trattenute dal Paese A) pari a 20.
Quindi, le effettive imposte che Alfa deve versare allo Stato B sono pari ancora a 5 (cioè: 25-20).
Nel primo caso Alfa ha incassato 80 ed ha pagato imposte per 5, quindi ha un guadagno di 75.
Nel secondo caso, Alfa ha incassato 100 ed ha pagato imposte ugualmente per 5, quindi ha un guadagno di 95.
Ma perché è previsto l’utilizzo del credito d’imposta figurativo?
Alcuni Paesi emergenti, al fine di favorire la loro crescita economica, incentivano gli investimenti di aziende straniere nel proprio territorio attraverso vari tipi di agevolazioni.
Tra le agevolazioni più usate vi sono quelle di tipo fiscale, che prevedono riduzioni ed esenzioni di imposta sugli utili generati nel proprio territorio.
Senza un accordo tra gli Stati, questo tipo di agevolazione fiscale andrebbe a vantaggio del Paese industrializzato ove risiede la società che investe nel Paese emergente.
Infatti, da un lato il Paese emergente non fa pagare imposte sugli utili maturati sul proprio territorio, ma dall’altro queste imposte verrebbero fatte pagare dal Paese della società che effettua l’investimento che si avvantaggerebbe della situazione.
Il vantaggio, per il Paese industrializzato è quello di incamerare delle imposte per redditi che si sono formati nel Paese emergente.
A questo punto, inoltre, l’appetibilità di investire nel Paese in via di sviluppo si ridurrebbe drasticamente.
Per rimediare a questo inconveniente, in campo internazionale si è gradualmente affermato il principio del credito d’imposta figurativo.
In sede di convenzione, cioè, gli Stati decidono di considerare come credito d’imposta anche quell’imposta che il Paese emergente non ha riscosso in ragione dell’interesse a favorire lo sviluppo di quel Paese.
La filosofia alla base degli accordi internazionali che prevedono l’utilizzo del credito di imposta figurativo potrebbe essere così riassunta.
Immaginiamo un Paese in via di sviluppo e una società straniera che investe in questo Paese.
L’idea di base è che se la società straniera contribuisce allo sviluppo economico del Paese in questione attraverso l’apporto di capitale, l’assunzione di personale locale, la condivisione di conoscenze tecniche, ecc., allora i “frutti” che la società straniera matura sul proprio investimento estero non solo non vengono tassati o vengono tassati in misura ridotta nel Paese in via di sviluppo, ma il sistema (attraverso le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni) fa anche in modo che gli stessi dividendi non possano venire aggrediti dal fisco del Paese ove risiede la società (attraverso l’utilizzo del credito di imposta figurativo).
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Torniamo adesso al caso in esame.
Come detto, la “banca italiana” ha investito in Brasile acquistando titoli di Stato brasiliani.
Su tali titoli maturano degli interessi che la “banca italiana” incassa.
Poniamo che gli interessi siano pari a 100.
Tra l’Italia ed il Brasile è in vigore una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni che prevede l’utilizzo del credito d’imposta figurativo pari al 25% dei redditi provenienti dal Brasile (inclusi gli interessi dei titoli del debito pubblico).
Attraverso tale meccanismo, da una parte, il Brasile non tassa gli interessi che la “banca italiana” incassa, e dall’altra le tasse italiane su tali interessi sono ridotte di un importo pari a 25.
Ecco spiegato il vantaggio fiscale della “banca italiana” sull’acquisto dei titoli di Stato brasiliani: una tassazione estremamente contenuta in Italia.
Le osservazioni dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate osserva che l’operazione conclusa dalla “banca italiana” con la “banca svizzera” non ha prodotto alcun componente positivo di reddito per la “banca italiana”: non c’era cioè alcun vantaggio economico per la “banca italiana”.
Invece, il rendimento dell’altra operazione, e cioè l’acquisto dei titoli di Stato brasiliani da parte della “banca italiana”, era costituito dall’ottenimento credito d’imposta figurativo, che veniva tuttavia ripartito tra la “banca italiana” e la “banca svizzera” attraverso pagamenti aggiuntivi.
L’Agenzia delle Entrate considera che le operazioni messe in atto dalla “banca italiana” siano elusive dal punto di vista fiscale, e per questo sanzionabili.
L’elusione fiscale, secondo la stessa Agenzia, nasce dal fatto che, da un parte il contratto tra la “banca italiana” e la “banca svizzera” non è sorretto da valide ragioni economiche, la sua messa in atto, cioè, non produce alcun vantaggio economico.
Dall’altra parte, sempre secondo l’Agenzia, il vero beneficiario del credito d’imposta figurativo legato all’acquisto dei titoli di Stato del Brasile non sarebbe la “banca italiana”, ma la “banca svizzera”.
Sempre secondo l’Agenzia questo tipo di operazioni sono: “prodotti fiscali, ossia operazioni finanziarie ben note, dettagliatamente descritte e riportate nei testi universitari, quali tipici esempi di scuola di elusione, utilizzati da numerosi istituti di credito di mezzo mondo; operazioni finanziarie o commerciali ripetibili nel tempo che si prefiggono il prevalente scopo di produrre un beneficio fiscale, il tax product”.
Le motivazioni della difesa
Secondo la “banca italiana”, l’operazione posta in essere con la “banca svizzera” possiede valide ragioni economiche.
Si tratta, infatti, di un’operazione che rientra in una ordinaria gestione di tesoreria della banca.
L’oggetto dell’ operazione è costituito da titoli che per loro natura possono avere dei rendimenti inferiori ai tassi prevalenti di mercato e comunque rendimenti di segno positivo, anche senza considerare l’effetto della componente fiscale.
Il minore rendimento, rispetto ai tassi di mercato, è giustificato, tra le altre cose, anche dal fatto che l’operazione con la “banca svizzera” è poco rischiosa.
In conclusione, se si considerano tutti gli elementi che compongono l’operazione con la “banca svizzera” si giunge alla conclusione che tale operazione ha un fondamento economico, a prescindere dal beneficio fiscale derivante dal credito di imposta.
Le osservazioni della Commissione Tributaria
La Commissione Tributaria Provinciale dell’Emilia Romagna condivide la tesi dell’Agenzia delle Entrate e considera l’insieme delle operazioni messe in atto dalla “banca italiana” elusive dal punto di vista fiscale.
Sempre secondo i Giudici, l’insieme delle operazioni è talmente complesso che la fattispecie non è codificata, cioè non è prevista, dalle norme antielusive italiane, e per questo motivo bisogna rifarsi al generale principio dell’abuso di diritto, previsto dalla giurisprudenza internazionale.
Per comprendere a fondo le osservazioni della Commissione Tributaria, bisogna prima soffermarsi sul significato dei termini “elusione fiscale” ed “abuso di diritto” che sono alla base delle motivazioni della sentenza.
Elusione fiscale
Il termine “elusione” (dal latino ex ludere, cioè “prendersi gioco”) identifica un particolare comportamento, apparentemente conforme alla normativa fiscale, ma in realtà rivolto all’aggiramento della stessa, con il fine specifico di ottenere una riduzione del carico tributario.
Si tratta di un utilizzo “distorto” delle norme di legge, anche attraverso lo sfruttamento di alcune lacune della stessa legge, che ha come unico fine quello di ottenere un vantaggio fiscale.
In Italia, la principale norma di contrasto al fenomeno dell’elusione fiscale è quella contenuta nel’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73, anche chiamata clausola generale anti-elusiva.
Secondo tale articolo di legge, sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, che sono:
- Privi di valide ragioni economiche.
- Diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario.
- Diretti ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti.
Benché sia conosciuta come clausola generale anti-elusiva, la norma si applica solamente ad operazioni ben specifiche, quali le trasformazioni, le fusioni, le scissioni, le liquidazioni, i conferimenti, le cessioni di credito, ecc.
Paradossalmente, una norma sorta per contrastare lo sfruttamento delle lacune o dei “buchi” di legge da parte di coloro che adottano comportamenti fiscalmente elusivi, è essa stessa “lacunosa”, dal momento che contempla solo alcune fattispecie, tralasciando l’universalità delle operazioni in cui può innestarsi un comportamento fiscalmente elusivo.
Abuso di diritto
Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha autonomamente posto rimedio alla inefficacia della clausola generale anti-elusiva rifacendosi al più generale principio dell’abuso di diritto per sanzionare quei comportamenti elusivi non limitati a specifiche fattispecie codificate.
“Abuso di diritto” è un termine usato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e fatto proprio da sempre più numerose sentenze della Corte di Cassazione del nostro Paese.
Richiamiamo nel seguito due importanti sentenze della Corte di Cassazione che inquadrano il concetto di abuso di diritto.
Dalla sentenza del 23.12.2008 n. 30057 della Corte di Cassazione – Sezioni Riunite: “il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.
Sempre secondo la Corte di Cassazione: “esiste, nell’ordinamento costituzionale, un principio per il quale non e’ lecito utilizzare abusivamente, e cioè per un fine diverso da quello per il quale sono state create, norme fiscali (lato sensu) di favore (…)”.
La precedente sentenza del 17.10.2008 n. 25374 della Corte di Cassazione riconosce l’esistenza dell’abuso di diritto anche là dove siano presenti delle secondarie ragioni economiche alla base dell’operazione: “Deve considerarsi abusivo il ricorso a forme giuridiche quando il risparmio fiscale sia lo scopo principale della forma di transazione scelta, anche se allo stesso si accompagnino secondarie finalita’ di contenuto economico.”
Inoltre, fa discendere il suo concetto direttamente dai principi dell’ordinamento della Comunità europea: “(…) la nozione assume il ruolo di Generalklausel antielusiva o di General Anti-Avoidance Rule nell’ordinamento tributario: pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali, la sua applicazione, come già riconosciuto dalla Corte, s’impone per essere la stessa di formazione comunitaria. Con la conseguenza che la stessa opera anche al di fuori dei tributi “armonizzati” o “comunitari”, quali l’I.V.A., le accise e i diritti doganali. Secondo una pluriennale e consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia pur essendo la materia dell’imposizione diretta attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi sono, comunque, vincolati al rispetto dei diritti e principi fondamentali dell’ordinamento comunitario. A tale giurisprudenza questa Corte si e’ costantemente adeguata.”
La sentenza in questione è inoltre molto interessante, se rapportata al nostro caso specifico, in quanto i Giudici sottolineano che gli stessi trattati contro le doppie imposizioni richiamano il concetto di abuso di diritto:
“Pur tenendo presente il valore non vincolante – sul piano normativo – del Commentario al modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni, sembra assai significativo l’art. 9.5 di tale testo: “E’ importante notare, comunque, che non dovrebbe essere facilmente ammesso che un contribuente diventi parte di transazioni abusive… Un principio guida è che i benefici di una convenzione in materia di doppia imposizione non debbano essere accordati quando scopo principale per concludere determinati transazioni o affari sia quello di assicurare un regime di tassazione più favorevole e di ottenere che, in tali circostanze, questo trattamento più favorevole debba essere contrario all’oggetto e alla finalità delle disposizioni rilevanti“.
Le due sentenze appena citate ci aiutano a delineare i contorni dell’ abuso di diritto.
Intanto, spiegano i Giudici, l’abuso di diritto non è un artificio estraneo alle leggi italiane, ma è un principio derivato direttamente dalle norme costituzionali, e più in particolare dagli articoli 53, comma 1 (capacità contributiva) e 53, comma 2 (progressività dell’imposizione).
A parere della Corte, le specifiche norme antielusive, come quelle contenute nell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73 appaiono “mero sintomo dell’esistenza di una regola generale”.
Inoltre, l’abuso di diritto fa parte dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario a cui richiamarsi.
Per quanto riguarda il suo significato, esso si traduce nell’utilizzo distorto di norme di legge al fine di ottenere un risparmio fiscale in mancanza di valide ragioni economiche o quando queste siano presenti ma secondarie.
Ecco quindi che il contrasto all’abuso di diritto si traduce nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi, di qualunque tipo, posti in essere al solo scopo (o allo scopo principale) di eludere l’applicazione di norme fiscali.
* * *
Torniamo adesso alla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia.
Come detto, il comportamento della “banca italiana” è ritenuto fiscalmente elusivo dai Giudici che si rifanno, data la complessità delle operazioni poste in essere, non alla clausola generale anti-elusiva prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/73, ma bensì al generale principio dell’abuso di diritto.
I Giudici sottolineano che affinché si possa parlare di abuso di diritto non è sufficiente che l’operazione in oggetto sia priva delle valide ragioni economiche, ma bisogna che vi sia la contemporanea presenza di un uso distorto o abusivo di norme di legge.
“L’elusione non coincide con ogni risparmio fiscale non giustificato da valide ragioni economiche; essa ricorre solo quando il vantaggio è abusivo perché ottenuto contro lo spirito, lo scopo e la ratio delle norme cui consegue.”
Entriamo adesso nel merito delle operazioni contestate.
Secondo i Giudici, l’acquisto dei titoli di Stato brasiliani, da parte della “banca italiana”, e la successiva stipula del contratto derivato con la “banca svizzera” costituiscono, nel loro insieme, operazioni prive di valide ragioni economiche volte ad ottenere un indebito vantaggio fiscale.
Inoltre, il vantaggio che ne deriva è ottenuto attraverso un uso distorto delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
Dunque, l’operazione nel suo insieme, può essere considerata fiscalmente elusiva.
Ma adiamo con ordine.
Per quanto riguarda l’assenza delle valide ragioni economiche, i Giudici sottolineano che il rendimento del contratto derivato stipulato con la “banca svizzera” è per la “banca italiana” praticamente nullo, se si esclude il credito d’imposta figurativo.
Per quanto riguarda l’utilizzo distorto delle norme, il ragionamento è il seguente.
E’ la “banca svizzera” a sopportare il rischio dell’acquisto dei titoli di Stato brasiliani in quanto è lei che finanzia il relativo importo alla “banca italiana”.
Ed è sempre la “banca svizzera” a godere delle cedole sugli stessi titoli di Stato in quanto la “banca italiana” li percepisce, ma li gira immediatamente alla “banca svizzera”.
Dunque, la “banca italiana”, benché risulti formalmente proprietaria dei titoli di Stato Brasiliani, nella sostanza, da una parte non ne sostiene il rischio, sopportato dalla “banca svizzera” e dall’altra non gode delle relative cedole, poiché esse sono riversate sempre alla “banca svizzera”.
Dunque, perché la “banca svizzera” non acquista direttamente i titoli di Stato brasiliani senza appoggiarsi alla “banca italiana”?
La risposta è molto semplice: se le cedole fossero state percepite direttamente dalla “banca svizzera”, questa non avrebbe avuto diritto a nessun credito d’imposta figurativo; al contrario, solo tramite l’intervento della “banca italiana” è stato possibile ottenere tale risultato.
E questo semplicemente perché tra la Svizzera ed il Brasile non è in vigore una convenzione internazionale che preveda l’utilizzo del credito d’imposta figurativo.
Ecco dunque spiegato come l’operazione in questione sia stata posta in essere attraverso un utilizzo distorto delle norme di legge.
In questo caso è stata utilizzata “abusivamente” una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni.
Infatti, come sottolineato dai Giudici, la “banca italiana” “non ha effettuato alcun investimento in Brasile, dal momento che, l’intero rischio dell’operazione – nonché i connessi benefici – sono imputabili” alla “banca svizzera”.
“Ciò che caratterizza l’investimento è il rischio che la parte si assume: nel caso che si discute sulla “banca italiana” non grava il rischio-paese, ma il rischio cedente, cioè la “banca svizzera”.
Ne consegue che la “banca italiana” non ha investito in Brasile, ma nella “banca svizzera”e, quindi, no ha diritto al beneficio convenzionale per gli investimenti effettuati in Brasile”.
In parole povere, ciò che è successo, secondo la sentenza della Commissione, potrebbe essere riassunto così: la “banca svizzera” vuole acquistare titoli di Stato Brasiliani per poter usufruire del credito di imposta figurativo del 25%.
Sempre la “banca svizzera” è disposta a sopportare il rischio relativo all’acquisto dei titoli di Stato, ma non può usufruire del credito di imposta figurativo perche tra la Svizzera ed il Brasile non è in vigore una convenzione internazionale che preveda l’utilizzo del credito d’imposta figurativo.
Allora cosa fa la “banca svizzera”?
Chiede alla “banca italiana” di acquistare i titoli di Stato del Brasile e si impegna a coprire la “banca italiana” da eventuali rischi legati a quei titoli.
Inoltre, la “banca italiana”, che può usufruire di un ricavo dato dal credito di imposta figurativo, gira tale ricavo alla “banca svizzera” trattenendosi una percentuale per il servizio prestato.
Per quanto sin qui detto, la Commissione Tributaria ha stabilito che le operazioni poste in essere dalla “banca italiana” sono elusive in base al principio dell’abuso di diritto, poichè sono caratterizzate da un utilizzo distorto delle norme contenute nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
Per questo motivo, gli effetti fiscali di tali operazioni sulla “banca italiana”, come l’utilizzo del credito d’imposta figurativo, non vengono riconosciuti, con conseguente recupero a tassazione di imposte non pagate oltre a sanzioni ed interessi.
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